“Polvere, corde e verità: il cuore blues dei The Record Company”

 Ci sono album che nascono con il passo incerto dei debuttanti e altri che, al contrario, si presentano subito con la forza di una dichiarazione di intenti. "Give It Back To You" dei The Record Company appartiene a questa seconda categoria. Pubblicato nel febbraio del 2016, questo lavoro non è soltanto l’inizio di un percorso discografico, ma una porta spalancata sul loro mondo sonoro, un biglietto da visita intriso di energia, sincerità e radici blues.

Il riconoscimento più grande arrivò quasi subito: la nomination ai Grammy come Best Contemporary Blues Album, un traguardo che per molti gruppi resta un sogno lontano e che invece per loro divenne realtà con il primo disco. A questo si aggiunsero i consensi della critica, l’inserimento tra i migliori album dell’anno secondo Rolling Stone e soprattutto il successo radiofonico del singolo “Off The Ground”, che conquistò il pubblico scalando le classifiche americane.

L’impressione è che fin dall’inizio The Record Company abbiano scelto di non indossare maschere: nessuna produzione patinata, nessun artificio, solo tre musicisti che suonano insieme con la forza di chi crede davvero in quello che sta facendo. Il risultato è un album che non si limita a presentare una band, ma che la consacra come una delle nuove voci più autentiche del rock contemporaneo.



L'album

Contesto: radici, nascita e approdo discografico

Per capire davvero Give It Back To You bisogna tornare indietro, a quando i The Record Company non erano ancora un nome noto, ma solo tre ragazzi uniti dalla stessa fame di musica. Chris Vos, Alex Stiff e Marc Cazorla si incontrarono a Los Angeles, accomunati dall’amore per il blues crudo di John Lee Hooker, l’energia sfrontata dei Rolling Stones e la grinta viscerale di Iggy Pop. Non c’erano grandi ambizioni, se non quella di suonare con onestà, senza filtri, lasciando che la musica parlasse da sola.

Il bello è che questo disco non nacque in uno studio patinato, ma in un salotto. Il living room di Alex divenne lo spazio creativo dove prendevano forma i brani, circondati da strumenti recuperati qua e là, microfoni usati, amplificatori segnati dal tempo. Non era solo un luogo, era un ecosistema: il divano spostato per far posto ai cavi, le pareti che vibravano al ritmo della batteria, l’aria densa di quel calore casalingo che nessuno studio professionale potrebbe mai replicare.

La loro filosofia era chiara: niente fronzoli, niente secondi fini. Quello che conta è la prima take, la spontaneità, il momento irripetibile. Ogni nota catturata su nastro doveva mantenere il respiro dell’istante, anche a costo di lasciare piccole imperfezioni. In realtà fu proprio questa autenticità a rendere il disco speciale.

Una volta terminato, portarono il progetto a Concord Records, che ebbe l’intelligenza di non stravolgerlo, pubblicandolo quasi così com’era. Ed è proprio da quella scelta di restare fedeli a sé stessi che nacque l’impatto di Give It Back To You: un debutto fatto in casa che arrivò fino alle platee dei Grammy e conquistò ascoltatori in tutto il mondo.

I temi di "Give It Back To You"

Se c’è una cosa che colpisce ascoltando "Give It Back To You", è la capacità della The Record Company di trasformare la vita quotidiana in musica che suona vera. Ogni brano sembra custodire un frammento di esperienza, e man mano che il disco scorre emergono dei fili conduttori che tengono tutto insieme.

Il primo è quello della lotta. Non parliamo di grandi battaglie epiche, ma di quelle piccole, intime, che affrontiamo tutti i giorni. In "Off The Ground" c’è il desiderio di rialzarsi, di togliersi la polvere di dosso e ricominciare. In
"Hard Day Coming Down"
senti invece il peso della fatica che ti schiaccia, ma anche la determinazione a resistere. E ancora in On The Move la musica diventa una spinta, un promemoria che fermarsi non è mai la soluzione.




Un altro tema forte è quello della libertà. "Turn Me Loose" non è soltanto una canzone, è quasi un grido: lasciami andare, fammi respirare, dammi la possibilità di essere davvero me stesso. Lo stesso titolo dell’album, "Give It Back To You", nasconde una promessa: restituire qualcosa che è stato tolto, liberarsi da un peso, lasciare andare per ritrovarsi più leggeri. È un invito a non restare imprigionati, che sia da una relazione, da un ricordo o perfino da se stessi.

C’è poi la solitudine, che aleggia come un’ombra in diversi momenti. In "Don’t Let Me Get Lonely" diventa paura, fragilità pura, una confessione sussurrata a cuore aperto. In "Rita Mae Young" la solitudine si intreccia con la memoria: una persona amata, evocata per nome, che non c’è più ma continua a vivere nel ricordo. Sono canzoni che non cercano di nascondere il dolore, anzi lo mettono al centro, trasformandolo in qualcosa di condiviso.

La città compare come simbolo, soprattutto in "This Crooked City". Qui la metropoli non è scenario neutro ma specchio deformato della vita: storta, imperfetta, a volte crudele. È una fotografia urbana che diventa metafora del nostro percorso interiore, fatto di curve, deviazioni e strade che non sempre portano dove speriamo.

Eppure, nonostante le cadute, la fatica e il buio, questo album custodisce anche la ricerca della luce. "Feels So Good" e "In The Mood For You" lo dimostrano bene: parlano di quei momenti, magari rari, in cui tutto sembra allinearsi e la vita ci regala attimi di felicità pura. Non è un’ingenuità, ma una conquista: come se la gioia arrivasse proprio perché si è avuto il coraggio di attraversare il dolore.

Alla fine, "Give It Back To You" non è solo una raccolta di brani blues-rock: è un viaggio emotivo. Ti prende per mano e ti fa passare attraverso solitudini, ricordi, catene da spezzare e momenti di luce che brillano come fari nella notte. È questo equilibrio tra ombra e speranza che rende l’album così umano, così vicino a chi ascolta.

Analisi musicale

Ascoltare "Give It Back To You" è come aprire una porta su un garage in cui il blues incontra il rock con un’urgenza primitiva. Non c’è ricerca di perfezione formale, ma un suono che vibra sporco, diretto, immediato. La prima impressione è quella di una band che suona dal vivo davanti a te, senza filtri: è questo il segreto che dà al disco una forza quasi tattile.

La chitarra di Chris Vos è il motore principale: riff granitici, slide che richiamano il Delta del Mississippi e distorsioni dal sapore vintage. In "Off The Ground", per esempio, il groove nasce proprio da un riff circolare che ti trascina senza scampo, un mantra blues elettrico che diventa ossessione. In Rita Mae Young, invece, il suono si fa più caldo, quasi narrativo, come una voce che accompagna il ricordo di qualcuno che non c’è più.

Il basso di Alex Stiff è il collante: minimale, essenziale, ma sempre pulsante. Non cerca di rubare la scena, piuttosto costruisce fondamenta solide su cui la chitarra può incendiarsi e la voce può gridare. In "Turn Me Loose", il basso diventa quasi ipnotico, tenendo insieme il brano come un battito cardiaco che non molla mai.

La batteria di Marc Cazorla è cruda, spesso asciutta, con colpi secchi che sembrano quasi uscire da una registrazione anni ’60. In "Hard Day Coming Down" la ritmica si fa pesante, quasi tribale, e il risultato è una tensione che cresce battuta dopo battuta. Ma sa anche alleggerirsi, come in "In The Mood For You", dove il ritmo più morbido accompagna un’atmosfera quasi soul.

La voce di Vos è l’anima. Non è raffinata, non è levigata, ed è proprio per questo che funziona: è roca, vissuta, piena di graffi e di polvere. Ti dà la sensazione che ogni parola sia uscita direttamente dallo stomaco. Nei momenti più intensi, come in Don’t Let Me Get Lonely, quella voce diventa un urlo trattenuto, fragile e potente al tempo stesso.

Musicalmente, l’album si muove tra due poli: da un lato il blues tradizionale, fatto di strutture semplici e ripetitive, dall’altro il rock più viscerale, con ritmi serrati e riff elettrici. In mezzo si infilano tocchi soul e qualche vibrazione folk, che rendono il tutto meno monocorde e più sfaccettato.

L’equilibrio tra questi elementi è sorprendente: "Give It Back To You" riesce a sembrare antico e moderno allo stesso tempo. Antico perché recupera il linguaggio essenziale delle radici americane, moderno perché lo traduce con un’energia punk, diretta e senza compromessi.

Quello che colpisce di più, alla fine, è la coerenza del suono. Dall’inizio alla fine, l’album non cerca scorciatoie, non ammicca alla radio con produzioni patinate. È un viaggio sonoro che punta tutto sulla sincerità: tre strumenti, una voce e il coraggio di restare veri.


Curiosità

La cosa più affascinante di questo disco è che non è nato dentro uno studio patinato con produttori milionari, ma in un salotto. Letteralmente. Alex Stiff, bassista della band, trasformò il suo living room in uno studio di registrazione improvvisato. Le pareti vibravano sotto il colpo della batteria, i cavi attraversavano il tappeto, e spesso c’era da spostare il divano per far spazio agli strumenti. È in quell’ambiente vissuto, con lampade basse e l’odore del legno, che i brani presero forma.

La strumentazione usata non era nuova di zecca, anzi. Molti strumenti erano di seconda mano, alcuni recuperati per pochi dollari, altri regalati da chi non li usava più. Una chitarra trovata per caso, un piano dimenticato, vecchi microfoni segnati dal tempo: ogni oggetto aveva già una storia, e quelle storie finirono per intrecciarsi con le canzoni. La band stessa raccontò che proprio quel carattere “vissuto” degli strumenti contribuì a creare un suono autentico, imperfetto e per questo incredibilmente vero.

C’è poi la filosofia delle prime take: i The Record Company volevano catturare la magia del momento, l’energia irripetibile che si sprigiona quando una canzone nasce. Non cercavano la perfezione, ma l’emozione. Se c’era un respiro fuori posto, un rumore di corda, poco importava: meglio conservare il cuore pulsante della musica piuttosto che lucidarla fino a renderla sterile.

Il risultato di questa attitudine si vide presto. “Off The Ground”, registrata proprio con questo spirito, divenne un successo radiofonico negli Stati Uniti, arrivando al numero uno della classifica Adult Alternative. Non male per un brano nato in un salotto con strumenti recuperati qua e là.

E come se non bastasse, la band vide il proprio disco d’esordio nominato ai Grammy, nella categoria Best Contemporary Blues Album. Un riconoscimento che arrivò quasi come un sogno, a confermare che a volte non servono lustrini e fuochi d’artificio: bastano tre musicisti, una stanza piena di passione e la voglia di suonare dal cuore.

Un’ultima curiosità riguarda i tour successivi: dopo l’uscita dell’album, i The Record Company si ritrovarono ad aprire i concerti di artisti come John Mayer e a calcare palchi prestigiosi, incluso il Madison Square Garden. Pensare che fino a poco tempo prima registravano in un soggiorno fa sorridere, ma rende perfettamente l’idea della forza travolgente che questo disco ha sprigionato.

📀 Scheda Tecnica

  • Titolo: Give It Back To You

  • Artista: The Record Company

  • Data di pubblicazione: 12 febbraio 2016

  • Etichetta: Concord Records

  • Genere: Blues Rock / Garage Rock / Roots Rock

  • Numero tracce: 10

  • Durata totale: 37:12

  • Singoli estratti: "Off The Ground"," Rita Mae Young", "Baby I’m Broken" (EP precedente, incluso nella promozione dell’album)

🎵 Tracklist

  1. Off The Ground – 4:08

  2. Don’t Let Me Get Lonely – 3:26

  3. Rita Mae Young – 4:31

  4. On The Move – 3:00

  5. Hard Day Coming Down – 4:27

  6. Feels So Good – 3:19

  7. Turn Me Loose – 3:17

  8. Give It Back To You – 3:23

  9. This Crooked City – 3:22

  10. In The Mood For You – 4:19





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