I Re del Pop:"Da Santana a Michael Jackson: quando le voci maschili cantano l'ombra" (parte 2)

 Dopo aver evocato le Regine del Pop che hanno stregato Halloween con le loro voci seducenti e inquietanti, è tempo di attraversare l’altra metà della notte.

Dietro le luci dei riflettori e i costumi scintillanti, anche le voci maschili del pop hanno saputo dare corpo al lato più oscuro della musica: quello in cui l’amore si trasforma in ossessione, la passione in maledizione, e il ritmo in un battito che richiama gli spiriti della notte.

Dagli anni ’70 fino ai giorni nostri, questi artisti hanno danzato con i propri demoni alcuni letteralmente, altri in senso più intimo. Hanno raccontato streghe e licantropi, fantasmi e paure interiori, fino a trasformare le loro hit in incantesimi sonori che tornano a risuonare ogni 31 ottobre.
C’è chi ha sfidato il Diavolo con un violino, chi ha cantato la follia con voce spezzata, chi ha trasformato l’inferno in una Highway rock e chi ha ballato tra i morti al ritmo di Thriller.

Halloween, dopotutto, non è solo la notte delle streghe, è la notte delle voci che non muoiono mai.
E in questo viaggio nell’ombra, scopriremo come il pop maschile ha saputo farsi eco dell’oscurità… con fascino, ironia e un pizzico di paura.


Anni ’70–’80 – L’alba dell’oscurità pop

Fu tra vinili graffiati e luci al neon che il pop iniziò a flirtare con le tenebre.
Negli anni ’70 e ’80, mentre il mondo scopriva la libertà del rock e la magia del sintetizzatore, la musica maschile trovò un nuovo linguaggio per raccontare l’occulto, la follia e il mistero.
Non erano ancora i “mostri” da palcoscenico di oggi, ma pionieri che trasformavano la paura in melodia: chitarre che evocavano streghe, bassi che pulsavano come cuori sepolti e voci che sussurravano segreti al buio.

È da qui che comincia la discesa elegante, magnetica, irresistibile verso il lato oscuro del pop.

Carlos Santana – “Black Magic Woman” (1971)

C’è un incantesimo che non ha bisogno di formule, né di candele accese: basta il suono della chitarra di Carlos Santana.
Black Magic Woman è più di una canzone è un rito musicale. Fin dalle prime note, la chitarra sembra sussurrare un sortilegio, scivolando sinuosa tra passione e pericolo, come il passo di una strega che danza nel fumo dell’incenso.
Il brano, nato dal blues dei Fleetwood Mac ma reso immortale dalla reinterpretazione latina di Santana, vibra di un magnetismo oscuro: congas, organo Hammond e riff ipnotici costruiscono un’atmosfera di seduzione stregata.

Nel testo, l’amore è un incubo dolce: una “donna di magia nera” che conquista e maledice allo stesso tempo.
La voce racconta di un uomo intrappolato tra desiderio e paura, incapace di resistere a un potere che lo divora lentamente. È la metafora perfetta della tentazione quella che affascina e consuma, proprio come le fiamme tremolanti di Halloween.

Ascoltare "Black Magic Woman" è come socchiudere gli occhi e sentire la notte che respira: calda, misteriosa, ammaliante. Una magia nera che non spaventa, ma seduce.



Eagles – “Witchy Woman” (1972)

Tra le dune polverose del deserto americano e il crepuscolo degli anni ’70, gli Eagles intonavano un incantesimo dalle ali oscure. “Witchy Woman” è una ballata stregata, un sogno febbrile di desiderio e pericolo. La sua protagonista non è solo una donna è un presagio, una visione che danza tra realtà e magia, tra sabbia e fumo d’incenso.

Il brano, sospeso tra rock e misticismo, si apre con un ritmo ipnotico, tamburi che battono come un cuore sotto l’effetto di un sortilegio. Le chitarre elettriche ondeggiano come fiamme nel buio, mentre la voce calda e malinconica di Don Henley racconta una donna dagli “occhi come fuoco d’ambra”, che ti guarda e ti brucia dentro.
Ogni parola è un incantesimo: “She’s got the moon in her eyes” e da quel momento non c’è via di fuga.

Witchy Woman cattura lo spirito di un’epoca in cui il mistero si mescolava alla libertà, in cui la magia non faceva paura ma prometteva conoscenza, piacere e perdizione.
È il ritratto di una figura femminile che incarna il potere oscuro del fascino, quello che ti seduce fino a farti perdere la ragione.

Nelle notti d’ottobre, quando l’aria profuma di pioggia e foglie bruciate, questo brano suona come un richiamo lontano la voce di una strega che canta tra i sogni, e nessuno riesce davvero a resisterle.



Electric Light Orchestra – “Evil Woman” (1975)

Con “Evil Woman”, la Electric Light Orchestra apre le porte a un altro tipo di incantesimo: quello moderno, urbano, dove la stregoneria non abita più nei boschi ma tra luci al neon e riflessi di specchi.
Jeff Lynne non evoca pozioni o riti antichi, ma una magia più sottile quella del cuore spezzato, del desiderio che si trasforma in maledizione.

Sin dall’inizio, il pianoforte scintilla come una lama lucida nella notte, accompagnato da archi che ondeggiano come ombre danzanti. È una melodia elegante ma tagliente, dove il pop si intreccia al soul e al glam, e ogni nota sembra un passo dentro una festa incantata.
La “donna malvagia” del titolo non è una creatura sovrannaturale, ma una figura reale e pericolosa: una musa che ammalia e abbandona, lasciando dietro di sé soltanto il profumo di ciò che non tornerà.

“Evil Woman” è la magia del disincanto, il lato oscuro dell’amore vestito di ritmo e seduzione. È il sorriso dolce che nasconde il veleno, il lento ballo sotto le luci dorate di una discoteca dove nessuno sa più se sta amando o sognando.

Nel mondo dell’ELO, il male ha la forma di una melodia perfetta brillante, irresistibile, eppure capace di lasciare un’ombra lunga nel cuore.
Un brano che trasforma la delusione in arte e l’incantesimo in eleganza: perfetto per una notte di Halloween dove la magia si nasconde dietro ogni nota che risuona nell’aria.



Blue Öyster Cult – “(Don’t Fear) The Reaper” (1976)

C’è un suono che sembra provenire da un’altra dimensione: una chitarra che taglia l’aria come una falce, un ritmo che pulsa come un cuore sospeso tra vita e morte. È così che i Blue Öyster Cult hanno scritto la loro leggenda con “(Don’t Fear) The Reaper”, una delle canzoni più enigmatiche e immortali del rock.

Apparentemente romantica, in realtà è una ballata gotica sull’accettazione del destino. La morte non è più il mostro che spaventa  è una presenza silenziosa, quasi compassionevole, che invita a non temere, ma a danzare insieme a lei.
“Don’t fear the reaper,” sussurra Eric Bloom con voce calma e seducente, mentre le chitarre disegnano spirali ipnotiche e la cowbell scandisce il battito dell’eternità.

C’è qualcosa di profondamente cinematografico in questo brano: una calma inquietante che precede la notte, una promessa sussurrata tra due amanti che sanno che il tempo è finito. È la colonna sonora perfetta per quella linea sottile dove l’amore sfuma nel mistero e la paura si trasforma in abbandono.

Nel corso degli anni, “(Don’t Fear) The Reaper” è diventata un’icona di Halloween non solo per i suoi toni oscuri, ma per la sua bellezza malinconica. È la voce di chi non fugge dall’ombra, ma la accoglie, con un sorriso che sa di eternità.


Cliff Richard – “Devil Woman” (1976)

Nel 1976, Cliff Richard abbandonò per un momento la sua immagine da bravo ragazzo della musica inglese per immergersi in un incubo esotico e seducente:
“Devil Woman”
.
È una canzone che odora di incenso e di pericolo, dove il confine tra desiderio e dannazione si dissolve come fumo nel buio.

Fin dalle prime note, la chitarra elettrica vibra come un presagio. Il ritmo è febbrile, il canto narrativo: un uomo racconta di essere stato stregato da una donna misteriosa, “con occhi di fuoco e un gatto nero al suo fianco”. Ogni dettaglio del testo è un tassello di un incantesimo sfere di cristallo, presagi, spiriti  ma sotto la superficie si nasconde un tema più profondo: la paura del fascino, l’attrazione verso ciò che non si può controllare.

La voce di Richard non urla, ma confessa. Non c’è rabbia, solo una fascinazione ipnotica, come se accettasse il destino di chi cade preda di un potere più grande.
“Devil Woman” diventa così un racconto morale mascherato da hit pop: un viaggio nella tentazione, dove il diavolo non appare con corna e forcone, ma con un sorriso che promette amore eterno… e un prezzo da pagare.

È un brano che trasuda anni ’70: elegante, sensuale, eppure intriso di quel brivido che solo la notte di Halloween sa risvegliare. La sua magia è quella di un incantesimo pop che non ha bisogno di effetti speciali solo di una voce che sa farti tremare anche quando sussurra.


Talking Heads – “Psycho Killer” (1977)

Nel 1977, mentre la new wave muoveva i suoi primi passi, i Talking Heads diedero voce a qualcosa che raramente il pop aveva osato raccontare: la mente di un assassino.
“Psycho Killer” non è una semplice canzone, è un monologo disturbante, una confessione sussurrata con tono calmo, quasi educato, che nasconde la follia dietro una facciata di razionalità.

David Byrne canta come se stesse parlando direttamente al proprio riflesso: impassibile, nervoso, fragile. Il basso pulsa in modo ossessivo, le chitarre si muovono a scatti, e ogni “fa-fa-fa-fa-fa” nel ritornello è un colpo di lama nel silenzio.
Il brano non urla orrore, lo suggerisce e proprio per questo fa più paura.

C’è qualcosa di magnetico in questa voce che racconta la follia con compostezza. Byrne non interpreta un mostro da film, ma un uomo qualunque, perso nella propria mente. È il suono dell’alienazione, dell’inquietudine quotidiana che si trasforma in violenza silenziosa.
Il tutto avvolto da un ritmo quasi danzante, un contrasto perfetto tra la musica e il terrore che evoca: il male che sorride, la follia che balla.

In una notte di Halloween, “Psycho Killer” è lo specchio in cui nessuno vuole guardare troppo a lungo. Perché dietro quella voce controllata e quel groove irresistibile, si nasconde la verità più scomoda di tutte: i mostri, spesso, parlano con la nostra voce.



Warren Zevon – “Werewolves of London” (1978)

Con “Werewolves of London”, Warren Zevon porta l’oscurità a fare festa.
È un brano che gioca con l’horror come fosse un film in bianco e nero, dove i mostri ballano invece di spaventare. Dietro il suo ritmo rock accattivante e il celebre ululato (“Awooooo!”) si nasconde una parodia affettuosa del mito del licantropo e allo stesso tempo, una delle canzoni più irresistibilmente sinistre degli anni ’70.

Il pianoforte si muove con passo felpato, le chitarre oscillano tra ironia e inquietudine, mentre Zevon racconta di un lupo mannaro elegante che si aggira per Londra in cerca di avventure… e forse di carne umana. C’è umorismo, certo, ma anche una sottile malinconia: sotto la superficie scherzosa, si intravede l’idea del “mostro urbano”, dell’uomo moderno che nasconde la propria bestia interiore dietro un sorriso civile.

La voce roca di Zevon, mezza risata e mezza ringhio, dà al brano il suo fascino inconfondibile, un equilibrio perfetto tra paura e divertimento, come una notte di Halloween illuminata da una luna troppo piena.

“Werewolves of London” è l’inno di chi non si prende troppo sul serio, ma sa che dentro ogni festa si nasconde un piccolo brivido.
Perché dopotutto, anche i mostri hanno stile… soprattutto se indossano un cappotto su misura e ululano con ritmo perfetto.


AC/DC – “Highway to Hell” (1979)

L’asfalto brucia sotto le ruote, l’aria odora di benzina e peccato. È notte fonda da qualche parte nell’outback australiano, e un lampo rosso attraversa il cielo: sta per iniziare “Highway to Hell”.
Con questo brano, gli AC/DC non raccontano solo una canzone — evocano una leggenda.

Il riff di chitarra di Angus Young è una sirena infernale che chiama a raccolta i dannati del rock. La voce ruvida di Bon Scott esplode come una risata del diavolo, sporca, vitale, irresistibile. Ogni colpo di batteria è un passo verso il basso, ogni accordo una fiamma che si accende sul ciglio della strada.
Non è paura, ma libertà: l’inferno, per gli AC/DC, non è punizione, è festa. È la promessa di un eterno eccesso, un luogo dove il rumore sostituisce il silenzio e la chitarra diventa un atto di sfida contro la morte.

Immagina una lunga strada illuminata solo dai fari, un pullman di anime ribelli lanciato verso l’ignoto, e sullo stereo quella voce che urla “I’m on the highway to hell!”.
È l’inno di chi non chiede perdono, di chi preferisce bruciare che spegnersi piano.

In quella notte del ’79, il rock trovò la sua messa nera, e Halloween la sua colonna sonora perfetta: nessun travestimento, nessun incantesimo, solo pura, elettrica dannazione.


The Charlie Daniels Band – “The Devil Went Down to Georgia” (1979)

Il caldo del Sud vibra come un miraggio, l’aria è ferma, e l’unico suono che si sente è quello di un grillo che tace di colpo.
Poi, da lontano, arriva un violino. Non un suono dolce, ma una lama che taglia il silenzio. È così che comincia “The Devil Went Down to Georgia”.

In questo duello sonoro, il diavolo scende in Georgia in cerca di un’anima da rubare e trova Johnny, un giovane violinista dal cuore impavido. La voce di Charlie Daniels è quella di un narratore antico, che racconta una leggenda tramandata sotto i portici e nelle taverne. Il ritmo accelera, il violino sferza, e all’improvviso la musica diventa una battaglia.
Da una parte il virtuosismo oscuro del demonio, con note che scintillano come oro fuso; dall’altra l’orgoglio terreno di Johnny, che suona con tutta la rabbia e la luce della sua umanità.

È un racconto che brucia di folklore e magia rurale, dove il male non è solo tentazione ma spettacolo, e la salvezza passa attraverso la musica.
Quando Johnny trionfa, non è solo lui a vincere: è la prova che anche l’uomo, armato solo di talento e coraggio, può battere il diavolo al suo stesso gioco.

Nella notte di Halloween, questa canzone risuona come un incantesimo country-rock, pieno di fuoco e sudore, di sfida e redenzione.
Il violino del diavolo resta lì, sospeso nell’aria calda della Georgia, ma nessuno osa toccarlo.



Dagli anni ’70 agli anni ’80: quando l’oscurità diventò spettacolo

Alla fine degli anni ’70, il rock aveva già evocato i suoi demoni.
Tra chitarre infuocate e ballate stregate, la musica aveva esplorato il male come simbolo di ribellione, libertà e desiderio. Ma con l’arrivo degli anni ’80, qualcosa cambiò: l’oscurità smise di nascondersi nell’ombra e cominciò a ballare sotto i riflettori.

Le tenebre divennero glamour, la paura si fece coreografia.
L’horror entrò nella cultura pop, vestito di giacche di pelle e guanti di paillettes. MTV accese il suo schermo e trasformò l’incubo in intrattenimento, il mostro in idolo.
In quel nuovo mondo, la musica non si limitava più a evocare spiriti o diavoli li metteva in scena, con stile, ironia e una dose irresistibile di seduzione.

E nel 1982, una figura emerse dall’ombra con il passo felpato di un predatore notturno: Michael Jackson.
Con lui, Halloween smise di essere una notte e divenne un videoclip eterno.

Bruce Springsteen – “Nebraska” (1982)

Non servono urla, né mostri, né fulmini per evocare il male.
A volte basta una voce sommessa, una chitarra acustica, e il silenzio che segue un colpo di pistola.

Con “Nebraska”, Bruce Springsteen apre una finestra sull’America più cupa, quella dove le strade sono dritte e infinite, ma non portano da nessuna parte.
Ispirato alla vera storia di Charles Starkweather — il giovane assassino che negli anni ’50 attraversò il Midwest lasciandosi dietro una scia di morte — Springsteen canta in prima persona la voce di un fantasma vivente.

La sua voce è un sussurro gelido, privo di rabbia ma carico di fatalismo. Non cerca perdono, non cerca giustificazioni. Solo racconta.
È l’orrore più sottile: quello della normalità che si incrina, del quotidiano che si tinge di sangue senza rumore.
Le note scarnificate della chitarra si intrecciano a un’armonica solitaria — come il vento che soffia sulle praterie vuote, tra stazioni di servizio abbandonate e case senza luce.

In “Nebraska” non c’è spettacolo, non c’è coreografia. C’è solo il volto umano del buio.
Un male che non si nasconde nei cimiteri o nei castelli, ma nei motels, nelle cucine spoglie, negli occhi stanchi di chi ha perso tutto.

Springsteen diventa il cantastorie di un Halloween senza maschere, dove la paura è reale e il mostro è dentro l’uomo.
Quando la canzone finisce, resta il silenzio. Un silenzio che pesa più di mille urla.


Michael Jackson – “Thriller” (1982)

La luna piena si riflette su un vialetto deserto. Un’ombra sottile si muove tra la nebbia, passi leggeri, quasi danzati. Poi, un urlo in lontananza.
Il buio respira. E Thriller comincia.

Con questo brano, Michael Jackson non solo ridefinisce la musica pop la trasforma in un’esperienza visiva, teatrale, magnetica. La sua voce si muove tra dolcezza e minaccia, tra seduzione e paura, accompagnata da bassi pulsanti che fanno tremare la terra. Ogni battito è un battito del cuore, ogni respiro un sussurro dal mondo dei morti.

Le porte cigolano, le creature si risvegliano. E quando il celebre narratore Vincent Price entra in scena con la sua risata demoniaca, il brivido diventa arte pura. Thriller è il punto in cui l’horror incontra il glamour, dove il mostruoso diventa spettacolo. Michael non fugge dal pericolo ci balla dentro, illuminato dal rosso del sangue e dal bianco della luna.

Il videoclip, diretto da John Landis, sigilla per sempre il mito: zombie, coreografie e una metamorfosi che è più di un effetto speciale è una dichiarazione di poetica. Michael si trasforma in mostro per mostrarci che l’oscurità non è da temere, ma da comprendere, da vivere con ritmo.
Halloween, da quel momento, non sarebbe mai più stato lo stesso.

E mentre la risata finale si spegne nell’eco, resta solo un pensiero sospeso nell’aria fredda della notte:
Chi è davvero il mostro?


Ray Parker Jr. – “Ghostbusters” (1984)

Le luci della città restano accese, ma qualcosa di strano serpeggia nell’aria.
I neon tremolano, il telefono squilla nel cuore della notte… e da un altoparlante scoppia una risata funk: “Who you gonna call?”

Con “Ghostbusters”, Ray Parker Jr. trasforma la paura in festa.
Nel 1984, mentre l’horror cinematografico si prendeva sul serio, lui sceglie un’altra via: quella dell’ironia, del ritmo contagioso, del divertimento che esorcizza l’oscurità con un sorriso.
Il suo basso pulsante è un battito urbano, il groove è uno spettro luminoso che danza tra synth e chitarre funky, portando lo spirito di Halloween direttamente in pista.

La voce di Parker è calda, ammiccante, quasi complice. Non ti mette in guardia dai fantasmi, ti invita a ballarci insieme.
In un’epoca in cui MTV aveva trasformato ogni canzone in un piccolo film, “Ghostbusters” diventa un’icona istantanea:
l’incontro perfetto tra pop, cinema e cultura popolare.

È l’altra faccia della paura: quella che ride, che gioca, che non si prende troppo sul serio.
Mentre i fantasmi invadono New York, la città non trema, vibra. Ogni ectoplasma è un motivo per muoversi, ogni spavento un passo di danza.

Nella sua leggerezza, “Ghostbusters” cattura l’essenza più genuina di Halloween: l’unione tra brivido e sorriso, tra notte e festa.
Perché, dopotutto, anche i fantasmi hanno bisogno di un buon ritmo per tornare a vivere.


Rockwell – “Somebody’s Watching Me” (1984)

Le tapparelle sono abbassate, la TV manda solo statiche, e da qualche parte forse nel corridoio, forse dentro la mente qualcosa si muove.
Poi, una voce si alza tra i synth: “I always feel like somebody’s watching me…”

Nel 1984, Rockwell firmò uno dei brani più inquietanti e irresistibili della storia del pop.
Un incubo in chiave funk, dove la paranoia si trasforma in ritmo e la paura si balla sotto la luce al neon.
Dietro il ritornello, corrono le voci familiari di Michael e Jermaine Jackson, che aggiungono al brano un’aura surreale, come fantasmi gentili che cantano dal buio.

La voce di Rockwell è teatrale, tesa, a tratti delirante: racconta l’angoscia di chi si sente osservato, spiato, giudicato da presenze invisibili.
Ma il segreto di “Somebody’s Watching Me” è proprio qui nell’equilibrio perfetto tra tensione e groove, tra paura e ironia.
Ogni nota dei sintetizzatori è una goccia di ansia digitale, ogni colpo di batteria un passo alle spalle dell’ascoltatore.

È la colonna sonora di un Halloween urbano, sospeso tra sogno e allucinazione, dove il mostro non arriva da fuori… ma vive nello specchio, nei riflessi dei televisori, nelle voci che non vogliono tacere.

Nel suo mix di funky, horror e paranoia pop, Rockwell anticipa il mondo moderno, quello in cui tutti siamo sempre connessi, sempre osservati, sempre in scena.
Un brano che fa sorridere, sì, ma che lascia anche un’eco sottile, come un respiro dietro la porta:
forse, davvero, qualcuno ci sta guardando.


INXS – “Devil Inside” (1988)

La notte è calda, elettrica, pulsante. Le luci dei club si riflettono sui vetri bagnati, e tra la folla in movimento qualcuno sorride con troppa calma.
C’è un segreto negli occhi della gente, qualcosa di seducente e pericoloso che si nasconde dietro ogni battito.
Poi arriva quella voce: velluto e veleno. “The devil inside, the devil inside…”

Con “Devil Inside”, gli INXS catturano l’essenza più ambigua degli anni ’80 la fusione perfetta tra erotismo e oscurità.
Non è un inno alla paura, ma alla tentazione.
La band australiana veste il diavolo di pelle e profumo, lo fa ballare tra riff sensuali e linee di basso ipnotiche, lo trasforma in simbolo del desiderio che abita dentro ognuno di noi.

Michael Hutchence canta come un predicatore decadente, sussurrando verità che nessuno vuole ammettere: che non serve evocare il male, perché il male è già dentro di noi.
Ma non è un messaggio cupo, è liberatorio.
In quella fusione di rock, groove e mistero, il peccato diventa danza, la perdizione un invito al piacere.

Ogni suono di “Devil Inside” è una carezza che brucia: la chitarra scivola come una tentazione, la voce si piega tra il sussurro e il comando.
È un brano che non spaventa, ma strega; non urla, ma seduce.

Nella fine degli anni ’80, quando l’horror si faceva spettacolo e il pop diventava maschera, gli INXS ci ricordano che l’unico demone davvero invincibile è quello che ci fa vivere, amare, desiderare.
Perché, come sussurra Hutchence in quella notte infinita, ogni uomo ha un diavolo dentro — e a volte è proprio lui a tenerlo vivo.


Bobby Brown – “On Our Own” (1989)

È la fine di un decennio che ha imparato a danzare con i fantasmi.
Le strade brillano di luci al neon, i taxi sfrecciano sotto un cielo color rame, e sullo sfondo di una New York sospesa tra realtà e fantasia, un nuovo ritmo prende vita: “On Our Own.”

Con questo brano, Bobby Brown porta l’eredità di Ghostbusters in una nuova dimensione più funk, più urbana, più anni ’80.
La paura non è più un mostro da combattere, ma un’energia da trasformare in movimento. Il brano nasce come colonna sonora di Ghostbusters II, ma va ben oltre il film: è l’inno di una generazione che non aspetta più eroi o salvezze dall’alto.
Il titolo stesso è una dichiarazione: “Siamo soli, ma possiamo farcela.”

La voce di Bobby Brown è calda, carismatica, piena di vita.
Scivola su un tappeto di sintetizzatori e drum machine come un sortilegio moderno: la città diventa un grande laboratorio dove musica, tecnologia e spiritualità si mescolano.
C’è ironia, ma anche verità: dietro la leggerezza del ritmo, si nasconde la consapevolezza che i veri fantasmi non sono più ectoplasmi o apparizioni, ma le nostre paure quotidiane: la solitudine, l’ambizione, la fame di libertà.


“On Our Own”
segna la chiusura perfetta di un’epoca.
Dopo un decennio di mostri, diavoli e incubi pop, la musica guarda avanti e sceglie di restare umana.
Non più vittima, non più spettro: solo una voce che canta nella notte elettrica della città, tra luci e riflessi, ricordandoci che anche senza eroi, possiamo ancora ballare contro la paura.


Anni ’90–2000 – Quando l’oscurità si fece intima

Con la fine degli anni ’80, il buio del pop smise di ballare sotto i riflettori e cominciò a guardarsi dentro.
Gli anni ’90 portarono con sé una nuova forma di oscurità: non più fatta di mostri o fantasmi, ma di inquietudini interiori, di malinconia, di silenzi urbani.
Era un’epoca in cui la paura si trasformava in riflessione, e il male non viveva più nei cimiteri, ma tra le crepe della mente.

Le chitarre si fecero più ruvide, le voci più vere, i testi più vulnerabili.
Il pop si contaminò con il grunge, il trip-hop, l’elettronica e l’R&B, trovando nuovi modi per raccontare il lato oscuro dell’anima.
Le ombre non erano più un travestimento, ma una condizione esistenziale: la solitudine, la perdita, il dubbio, tutti spettri moderni, invisibili ma presenti.

Eppure, anche in mezzo a questa introspezione, Halloween continuava a risuonare: non più come festa o ironia, ma come metafora.
L’uomo moderno, disincantato e fragile, si ritrovava a danzare con i propri demoni, cercando nella musica una forma di catarsi, una luce nella nebbia del proprio io.

Fu il tempo di nuove voci, di artisti che seppero trasformare l’oscurità in poesia, il dolore in melodia, la solitudine in arte.
Dai corridoi industriali dei Nine Inch Nails alle notti elettroniche dei Depeche Mode, fino alla malinconia pop di Robbie Williams e George Michael, ogni canzone diventava uno specchio.

Negli anni ’90 e 2000, il brivido non veniva più da fuori.
Era dentro, e la musica lo sapeva.

Depeche Mode – Walking in My Shoes (1993)

C’è un crepuscolo che non appartiene a nessuna stagione, un chiaroscuro eterno in cui si muovono i Depeche Mode. Con Walking in My Shoes, pubblicata nel 1993, la band inglese trasforma la confessione in rito oscuro, la colpa in una danza lenta e ipnotica.
Le tastiere pulsano come cuori malati, la batteria scandisce un battito grave, mentre la voce di Dave Gahan emerge profonda, ferita, quasi redenta.

Il brano non parla di mostri esteriori, ma di quelli che si portano dentro. “Try walking in my shoes”, sussurra Gahan, come una preghiera rivolta al buio. È un invito a comprendere, ma anche una maledizione per chi giudica.
Nel video diretto da Anton Corbijn, figure vestite da preti decadenti, simboli religiosi distorti e un’estetica da sogno febbrile si mescolano come in una liturgia gotica: un mondo dove la fede e la colpa si abbracciano in un eterno tango.

Ascoltarla è come entrare in una chiesa abbandonata illuminata da candele tremolanti: la voce di Gahan è un incenso che sale lento, le note sono ombre che si allungano sui muri.
Non serve sangue, né urla: basta quella confessione sussurrata nel buio per ricordarci che l’orrore più vero, a volte, abita proprio dentro la coscienza.



Nine Inch Nails – Closer (1994)

Nel 1994, mentre il pop cercava ancora la sua forma più lucida e commerciale, Trent Reznor scelse di affondare le mani nella carne viva dell’oscurità. Closer dei Nine Inch Nails non è una semplice canzone: è un rituale sensuale e disturbante, un sussurro che graffia, un battito che si insinua come febbre sotto pelle.

Il brano si apre con un respiro meccanico, quasi animalesco. Le percussioni battono come un cuore in prigionia, i synth oscillano tra desiderio e dannazione, e la voce di Reznor è un gemito di disperazione mascherato da preghiera.
“Help me… I want to f*** you like an animal.”
È una confessione scomoda, ma anche una verità brutale: il bisogno di contatto umano, di redenzione attraverso l’istinto più primordiale.

Nel videoclip, un mosaico di immagini sacrileghe e visioni decadenti, Reznor appare come un profeta impazzito in una chiesa profanata: crocifissi rovesciati, cadaveri imbalsamati, polvere e sangue si mescolano in una danza liturgica della perversione.
Il corpo diventa simbolo, la blasfemia arte, la musica un esorcismo industriale contro la colpa e il silenzio.

Ascoltare Closer è come camminare in un tunnel illuminato da strobo rossi e neri: non sai se stai fuggendo o seguendo una chiamata.
Reznor non canta l’orrore come mostro, ma come umano: quello che si contorce dentro di noi, che desidera, che teme, che prega di essere compreso.

È la colonna sonora perfetta per l’Halloween interiore, quello dove i fantasmi non vivono nei castelli, ma nel cuore.


Radiohead – Climbing Up the Walls (1997)

C’è un tipo di paura che non si mostra, che non ha volto né denti, ma si insinua lenta, come umidità dietro le pareti. Climbing Up the Walls, uscita nel 1997 all’interno di OK Computer, è il momento in cui i Radiohead smettono di osservare il mondo e iniziano a scrutare dentro l’incubo.

Il brano si apre come un respiro trattenuto: archi distorti, ronzii elettronici, un battito che cresce come un’ansia. Poi arriva Thom Yorke, con quella voce fragile e spettrale che sembra parlare da dietro una porta chiusa.
“You know, you should be frightened…”
Non è un avvertimento, è una constatazione.

Climbing Up the Walls racconta la presenza del male non come qualcosa di esterno, ma come un’ombra che abita la mente — la depressione, la paranoia, la violenza che si insinua nel quotidiano. Yorke canta come un fantasma intrappolato nel cervello di chi ascolta, mentre le sonorità si fanno sempre più claustrofobiche, fino all’esplosione finale: un urlo distorto, un’esplosione di dolore puro.

Nel mondo dei Radiohead, l’orrore non ha bisogno di maschere o cimiteri: basta una stanza silenziosa e la sensazione di non essere soli.
È l’incubo urbano per eccellenza quello che vive tra le crepe dei muri, nei pensieri che non si confessano, nei respiri trattenuti a mezzanotte.

"Climbing Up the Walls" è la colonna sonora di una mente che si sfalda. È Halloween senza costumi né feste, solo con la verità nuda e spaventosa di ciò che significa essere umani.


Backstreet Boys – Everybody (Backstreet’s Back) (1997)

Una strada deserta, una notte di tempesta. L’autobus dei Backstreet Boys si ferma con un sibilo di freni davanti a un antico maniero, perso tra la nebbia e gli alberi contorti. Le porte cigolano, il vento entra come un sospiro di presagio. Nessuno parla. Poi, una risata lontana  e l’oscurità si anima.

Così comincia Everybody (Backstreet’s Back), uno dei videoclip più iconici degli anni ’90 e, senza saperlo, uno dei più perfetti inni pop di Halloween.
Dentro quella casa abitata da ombre, i cinque ragazzi si trasformano in creature della notte: Brian diventa un licantropo dal cuore tenero, Howie un vampiro elegante, Nick una mummia malinconica, A.J. un fantasma decadente, Kevin il dottor Jekyll e Mr. Hyde.
Eppure, invece di spaventare, ballano. Trasformano la paura in ritmo, il buio in festa.

La canzone è un inno alla resurrezione “Backstreet’s back, alright!” che suona come un grido dalla tomba del pop, tornato più vivo che mai. Il beat pulsante richiama la cadenza di un cuore ritrovato, mentre le armonie vocali scintillano come fulmini tra le finestre del castello.
Ogni passo di danza è una piccola magia: la coreografia diventa incantesimo, il ritornello una maledizione gioiosa che ti rimane addosso come un profumo d’autunno.

Nel video di Joseph Kahn, il confine tra realtà e sogno si dissolve: lo spettacolo diventa possessione, il pop si traveste da horror gotico, e il terrore si trasforma in puro divertimento.
È un Halloween senza paura, un ballo in maschera dove i mostri non fanno paura perché, in fondo, ci somigliano.

Con Everybody (Backstreet’s Back), i Backstreet Boys hanno firmato il loro patto con l’eternità pop: essere immortali, anche solo per una notte, quando la luna piena illumina la pista da ballo e tutti i fantasmi tornano a danzare.


Robbie Williams –
Let Me Entertain You
(1998)

Il sipario si apre con una risata diabolica. Le luci esplodono, i riflettori tagliano il fumo, e al centro del palco appare Robbie Williams — volto dipinto di bianco e nero, sguardo spiritato, sorriso da predatore. È metà rockstar, metà demonio circense, e il suo grido: “Hell is gone and heaven’s here, there’s nothing left for you to fear!” è un invito a lasciarsi tentare.

Con "Let Me Entertain You", Robbie non canta: evoca. Trasforma il pop in uno spettacolo infernale, dove il peccato è parte dello show e il palco è l’altare su cui si brucia la rispettabilità. Il suo carisma è un incantesimo moderno, un misto di ironia e dannazione, come se il fantasma di Freddie Mercury avesse preso possesso del corpo di un clown maledetto.

Il videoclip amplifica questa visione: un circo demoniaco fatto di luci strobo, pelle e vernice, dove Robbie gioca col pubblico come un illusionista che conosce già il finale del suo numero. Ogni nota è una tentazione, ogni gesto un’ipnosi collettiva.
Il pop qui non è più innocente  è teatro, possessione, rito. E lui ne è il sacerdote.

“Let Me Entertain You” segna la fine di un’epoca: quella in cui l’oscurità non era più solo mostri o paure, ma fascino, eccesso, magnetismo. Robbie si fa incarnazione dell’“entertainer” moderno, un essere che vive di applausi come un vampiro di sangue, che si nutre della folla e restituisce follia.

È l’alba di un nuovo Halloween pop: quello dove lo show diventa peccato, e il peccato, finalmente, si balla.




Anni 2000–2010 – L’oscurità si fa digitale

Con l’arrivo del nuovo millennio, l’oscurità del pop cambia forma. Non è più fatta di castelli infestati o di lupi mannari, ma di schermi, riflessi e silenzi interiori. I mostri non abitano più le notti tempestose, ma i corridoi della mente nascosti dietro profili perfetti e luci al neon.

Il pop maschile degli anni 2000 abbandona il trucco teatrale dell’horror e indossa una maschera più sottile: quella della fragilità. La paura non viene più urlata, ma sussurrata; la malinconia diventa glamour, l’oscurità, introspezione.
Le chitarre si fanno più pulite, i beat più sintetici, ma l’anima resta inquieta. Gli artisti iniziano a esplorare un nuovo tipo di spavento, quello che nasce dall’isolamento, dal disincanto, dalla solitudine in un mondo iperconnesso.

È un’epoca in cui il buio non si combatte: si accoglie.
E dentro questa notte lucida e artificiale, il pop scopre un nuovo volto di Halloween più intimo, più umano, ma ancora irresistibilmente magnetico.

Imagine Dragons – Demons (2013)

C’è un buio che non si vede, ma che si sente. Non vive nei boschi né nei castelli stregati, ma dentro gli occhi delle persone. Demons, pubblicata nel 2013 dagli Imagine Dragons, è una confessione che brucia piano una preghiera sussurrata in un mondo dove l’oscurità non fa più paura perché ormai abita tutti.

Dan Reynolds non urla: implora. La sua voce vibra come una fiamma che resiste al vento, fragile e ostinata. “When the days are cold and the cards all fold, and the saints we see are all made of gold…”
Le parole scivolano come cera calda, rivelando una verità che ogni generazione tenta di nascondere: non servono maschere per evocare i mostri. Siamo noi, i nostri pensieri, le nostre ferite, le nostre paure non dette.

La melodia, costruita su una tensione quasi sacra, mescola elettronica e percussioni tribali come un battito cardiaco collettivo. È la colonna sonora del dubbio moderno: il bene e il male non si scontrano più fuori, ma dentro.
Nel videoclip, il palco diventa uno specchio: la band suona di fronte a un pubblico pieno di volti segnati dalla vita, mentre la voce di Reynolds si spezza, sincera, su quel ritornello che è insieme supplica e resa “Don’t get too close, it’s dark inside…”

Demons è l’inno dell’Halloween del XXI secolo: non più una festa di travestimenti, ma un viaggio tra le crepe dell’anima. Qui i mostri non ballano più tra le ombre, siedono accanto a noi, in silenzio, e aspettano solo che impariamo a guardarli negli occhi.


The Weeknd – “In the Night” (2015)

La notte è una giostra di luci stroboscopiche, ombre che si allungano, volti segnati dal desiderio e dalla sofferenza. In the Night non è solo un brano — è un’esperienza noir, dove la festa diventa fuga, e la musica un canto fragile nel cuore del caos.

Abel Tesfaye, alias The Weeknd, dipinge con suoni retro anni ’80 un quadro di dolore nascosto: lei, la protagonista, vive sospesa tra la memoria e la danza, cercando sollievo nella notte rumorosa di un club che non dorme. 
Il ritmo è ipnotico, il synth vibra come un’eco lontana che chiama. Le battute non cercano di nascondere l’oscurità, la illuminano da dentro. Ogni strofa è un passo verso la ferita che non cicatrizza, ogni ritornello un urlo trattenuto sotto il glamour. 

Nel testo emergono verità crude: “She was young and she was forced to be a woman”, la ragazza che ha perduto l’innocenza troppo in fretta, che ora balla per dimenticare le voci che la tormentano. Mentre le banconote cadono, mentre le lacrime scorrono in silenzio, The Weeknd osserva da lontano non come giudice, ma come testimone. La sua voce è un sussurro che taglia, compassione che non guarisce ma illumina.

Il video, diretto da BRTHR, è un cinema di contrasti: un nightclub decadente, gangster che la circondano, una donna che danza sotto pressione, e alla fine uno sguardo che sembra dire “non capite”. 
Quando le luci si spengono, la scena resta impressa: la bellezza e la caduta, il riflesso della sofferenza nei corpi che cercano di sopravvivere alla notte.

In the Night è l’Halloween interiore della modernità: non c’è farsa, non c’è maschera. C’è solo la verità nuda che chiunque abbia vissuto un’ombra dentro di sé, sa cos’è.


Justin Bieber – Ghost (2022)

Dopo decenni di ombre, scheletri danzanti e mostri interiori, arriva una nuova forma di “fantasma”: quella che non spaventa, ma manca.
Con Ghost, Justin Bieber trasforma l’oscurità in malinconia luminosa, abbandonando i cimiteri e i castelli gotici per parlare di un’assenza che tutti conoscono: quella di chi non c’è più, ma continua a vivere nei ricordi.
L’atmosfera è sospesa, come una notte di fine ottobre in cui la nebbia copre ogni cosa, ma nel silenzio si sente ancora una voce.
Il pianoforte accompagna la confessione di Bieber: “If I can’t be close to you, I’ll settle for the ghost of you” una delle frasi più struggenti del pop contemporaneo. È un modo delicato di dire che l’amore, quando è autentico, non finisce mai davvero: cambia forma, diventa presenza impalpabile, fantasma benevolo che abita il cuore.
Nell’immaginario di Halloween, "Ghost" è come una candela accesa tra mille ombre: non urla, non spaventa, ma scalda e commuove.
È la versione moderna e intima del rapporto con l’aldilà, non più la paura del ritorno dei morti, ma la dolce speranza di non perderli mai del tutto.
In questo senso, Bieber chiude un cerchio lungo mezzo secolo: dal mistero sensuale di Black Magic Woman alla tenerezza ultraterrena di Ghost, la musica pop ha imparato che anche i fantasmi possono amare.
E mentre l’ultima nota si spegne, resta nell’aria una promessa sottile, sussurrata tra i veli della notte di Halloween:
Non siamo mai davvero soli, finché qualcuno ci ricorda.


L’eco dei fantasmi nel pop maschile

Dai riff incantati di Santana alle confessioni eteree di Justin Bieber, la musica pop al maschile ha attraversato più di mezzo secolo di oscurità, trasformandola di volta in volta in magia, peccato, desiderio o malinconia.
Negli anni ’70, l’ombra era stregoneria: la Witchy Woman degli Eagles e la Black Magic Woman di Santana danzavano nel fumo d’incenso e nelle notti psichedeliche. Negli ’80, l’oscurità si fece spettacolo: Michael Jackson, Springsteen e gli INXS diedero al mistero un volto pop, tra inquietudine e fascino.
Poi arrivarono i ’90, con il tormento interiore di Depeche Mode e Radiohead, e persino il sorriso beffardo dei Backstreet Boys che, dietro i costumi da zombie, nascondevano la nostalgia di un’epoca più ingenua.
Infine, il nuovo millennio ha reso l’oscurità intima, fragile, quasi spirituale: i Demons degli Imagine Dragons, i Psycho di Post Malone e i Ghost di Bieber hanno portato Halloween dentro l’anima, non più fuori.

Così, mentre le luci tremolano e l’autunno respira l’odore delle foglie bagnate, possiamo ascoltare la musica di queste voci come un unico filo invisibile che lega generazioni di artisti e di paure.
Ogni canzone è una lanterna accesa sul ciglio della notte a ricordarci che il buio non è solo un luogo da temere, ma anche uno spazio dove ritrovare noi stessi.
Perché il vero spirito di Halloween, quello che vibra in ogni nota, non è fatto di mostri o maschere… ma del coraggio di guardare nell’ombra e riconoscere che, in fondo, anche lì batte un cuore

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