🎃 Hit pop e Halloween: da Lady Gaga a Billie Eilish: (Le regine del Pop)
C’è una notte in cui il pop smette di sorridere.
Le luci si fanno più fredde, il glitter si mescola al sangue finto, e la voce delle dive si alza come un canto ammaliante nel buio. Halloween non è solo la festa dei mostri e delle zucche illuminate: è il momento in cui la musica pop mostra il suo volto più seducente e inquieto. È il regno dove le popstar diventano creature mitiche, dove la paura si veste di moda e la melodia si trasforma in un incantesimo.
Fin dagli anni ’70, tra vinili e videoclip, il pop femminile ha trovato nell’oscurità un linguaggio segreto. C’erano streghe che danzavano nella nebbia come Kate Bush, sacerdotesse post-punk come Siouxsie Sioux, regine gotiche come Madonna. Ogni epoca ha avuto la sua eroina ombrosa: donne che hanno trasformato l’incubo in arte, la follia in fascino, il mistero in spettacolo.
Poi, con l’arrivo del nuovo millennio, il lato oscuro del pop ha cambiato pelle.
È diventato più visivo, cinematografico, viscerale. Da Lady Gaga che danza con i suoi demoni in un tripudio di latex e fiamme, a Billie Eilish che sussurra come una presenza ultraterrena, passando per la sensualità glaciale di Rihanna e l’ironia macabra di Sabrina Carpenter: ogni artista ha riscritto la grammatica della paura secondo la propria estetica.
Halloween, in fondo, è sempre stato questo: un palcoscenico in cui il pop si specchia nel buio per riscoprire se stesso.
Una notte dove le maschere cadono e restano solo i personaggi più veri, quelli che non hanno paura di guardare l’abisso e di ballarci dentro.
🌫️ Le origini: le ombre eleganti del pop (anni ’70–2000)
Erano artiste visionarie, capaci di far convivere il mistero con la grazia, la paura con la poesia. Non servivano effetti speciali o coreografie demoniache: bastavano un sussurro, un’ombra, una danza nella nebbia.
Negli anni ’70 e ’80, il pop scoprì la sua parte più lunare sospesa tra romanticismo gotico e inquietudine raffinata. Da Kate Bush a Madonna, da Siouxsie Sioux a Janet Jackson, la notte trovò finalmente il suo suono.
“Wuthering Heights” - Kate Bush, 1978
È la nebbia dello Yorkshire che prende voce.
Nel 1978, una giovanissima Kate Bush appare come un’apparizione scarlatta in un campo desolato, avvolta da una brughiera spettrale. La sua voce, acuta e ipnotica, non sembra umana: vibra come un lamento che attraversa il tempo, un richiamo che nasce da un’altra dimensione. È Catherine Earnshaw, l’amante fantasma del romanzo di Emily Brontë, che torna a chiedere all’amato Heathcliff di aprirle la porta.
“Wuthering Heights” è molto più di una canzone: è una seduta spiritica travestita da melodia pop. Ogni nota sembra evocare l’eco del vento che soffia tra le rovine, ogni parola è una carezza dal regno dei morti. Kate Bush canta come se fosse posseduta dal personaggio stesso, e in quel momento, tra la sua voce e il mondo, non c’è più confine.
Nel videoclip, la magia si fa visibile. Kate danza da sola, in un campo immerso nella nebbia, vestita di rosso come una fiamma accesa nel crepuscolo. I suoi movimenti sono lenti, quasi rituali, come una strega che invoca gli spiriti con la grazia di un sogno. Il suo abito ondeggia come se avesse vita propria, e per un istante lo spettatore dimentica la realtà: tutto diventa sospeso, poetico, ultraterreno.
“Wuthering Heights” è l’inizio di un incantesimo che durerà per decenni. In un’epoca in cui il pop cercava ancora se stesso, Kate Bush osò farne un racconto di fantasmi, romanticismo e morte. Invece di spaventare, incantò.
E nel farlo, diede alla musica una nuova ombra, quella del sogno gotico: un Halloween fatto di brughiera, vento e amore eterno.
“Spellbound” - Siouxsie and the Banshees, 1981
C’è un’elettricità inquieta che attraversa l’aria, un battito tribale che sembra provenire da un sabba notturno. È il 1981 quando Siouxsie Sioux, con i suoi occhi bistrati di nero e la voce che graffia come il vento d’autunno, pubblica “Spellbound”. Il titolo è un avvertimento: incantato, stregato. La sua magia non ha bisogno di formule, basta la musica.
Nel video, Siouxsie danza in una stanza che ruota su se stessa, come intrappolata in un sogno febbrile. I muri si muovono, i corpi si moltiplicano, il tempo si piega. È un vortice visivo e sonoro, un rituale moderno dove il punk incontra l’occulto. Ogni gesto è un sortilegio, ogni nota una maledizione sussurrata tra le ombre.
Con i Banshees, Siouxsie dà forma a un suono che non appartiene del tutto a questo mondo: chitarre taglienti, batteria ossessiva, linee di basso che si muovono come presenze invisibili. È la colonna sonora di una notte inquieta, di un incantesimo lanciato a ritmo di new wave. Il suo look capelli corvini, pelle diafana, abiti neri dalle linee geometriche la trasforma nella strega post-punk, nella sacerdotessa dell’ombra, nel volto che rende la paura elegante.
“Spellbound” non parla di mostri o di sangue, ma di quella magia sottile che ci tiene svegli, legati all’amore, all’insonnia, al mistero. È il lato più raffinato dell’oscurità: un incubo danzato sotto le luci stroboscopiche, dove il fascino e l’inquietudine si fondono in un solo movimento.
Con questo brano, Siouxsie Sioux anticipa l’estetica gotica che segnerà un’epoca e che, molti anni dopo, tornerà nelle notti di Halloween come un’eco di stile e malìa.
Kate Bush - “Experiment IV” - 1986
C’è un silenzio che precede l’orrore, un respiro trattenuto che annuncia l’impossibile. È il 1986 e Kate Bush ritorna, ma questa volta non è più la giovane spettro romantica di “Wuthering Heights”: è una scienziata dell’incubo, una testimone di un esperimento sonoro che sfugge al controllo. “Experiment IV” è un racconto distopico travestito da canzone pop: un laboratorio segreto, un gruppo di ricercatori e un progetto sinistro creano un suono capace di uccidere.
Il brano nasce come inedito per la raccolta The Whole Story, ma è nel videoclip che diventa leggenda. Kate interpreta una delle ricercatrici di un bunker governativo, immerso in un’atmosfera da film horror britannico. I camici bianchi, i corridoi metallici, la tensione crescente: tutto porta a un momento di puro terrore poetico. Quando la macchina del suono si attiva, qualcosa di invisibile — una creatura fatta di frequenze e lamenti prende forma e devasta il laboratorio. La musica stessa diventa mostro, forza soprannaturale, voce di un’entità che non dovrebbe esistere.
In pochi minuti, “Experiment IV” riesce a fondere l’immaginario gotico con la fantascienza e la critica sociale: il potere dell’arte come arma, la scienza che gioca a fare Dio, la bellezza che si trasforma in pericolo.
La voce di Kate, dolce e inquietante allo stesso tempo, sembra provenire da un altrove, è il canto di chi ha visto troppo, di chi ha toccato il mistero e ne è rimasto segnato.
Nel suo mondo, l’orrore non esplode: si insinua, scivola, avvolge. “Experiment IV” è un Halloween fatto di luci al neon e ombre industriali, di curiosità e colpa. È la prova che Kate Bush non ha mai smesso di camminare sul confine tra sogno e incubo, portando con sé il fascino immortale dell’ignoto.
Janet Jackson, “Black Cat” - 1990
La notte pulsa di elettricità, e tra il fumo e i riflessi metallici si muove una figura felina: Janet Jackson. È il 1990, e il pop scopre la sua anima più selvaggia. “Black Cat” non è solo una canzone: è una trasformazione, un rituale di libertà dove la dolcezza patinata di Janet si scioglie in un ringhio di chitarre elettriche e luci rosse.
Il brano nasce come ribellione pura. Dopo anni di suoni sintetici e coreografie levigate, Janet decide di sporcare la sua voce, di graffiare. “Black Cat” è rock, ma resta profondamente pop un’ibridazione che suona come un sortilegio. Il ritmo incalza, la chitarra ruggisce, e lei canta di pericolo, di eccesso, di un’attrazione che consuma. Non c’è romanticismo: solo istinto.
Sul palco e nel videoclip, Janet diventa una pantera. Tutto è buio, metallico, sensuale. Indossa pelle nera, si muove tra lampi e fumo, mentre le luci stroboscopiche la disegnano come una creatura pronta all’attacco. È la regina di un sabba urbano, metà donna e metà ombra, che domina la scena con una potenza magnetica.
“Black Cat” è una delle prime vere metamorfosi “dark” nel pop mainstream femminile.
Non parla di fantasmi o mostri, ma evoca l’energia stessa della notte, quella che non ha volto, ma si sente scorrere sotto pelle. È la sensualità del rischio, la grazia della ferocia, l’istinto di chi sa che l’oscurità non va temuta, ma danzata.
Con questo brano, Janet Jackson diventa la pantera del pop: un simbolo di forza e mistero, di libertà e controllo.
E in quella notte del 1990, il “black cat” che attraversa la strada non porta sfortuna, porta potenza.
Madonna, “Frozen” - 1998
Il deserto si stende come un altare. Il cielo è grigio, sospeso tra la tempesta e il silenzio. E nel mezzo, avvolta in veli neri che danzano come fumo, appare Madonna: non più provocatrice, non più regina della pista, ma una figura antica e solenne. Con “Frozen”, Madonna abbandona la carne per diventare spirito.
Il video, diretto da Chris Cunningham, è un incantesimo visivo: Madonna fluttua tra le dune, si dissolve in uno stormo di corvi, si trasforma in un cane nero, in sabbia, in ombra. È la sacerdotessa di un mondo immobile, una strega che ha smesso di gridare per sussurrare al vento. La musica elettronica, lenta, ipnotica sembra un rituale, un canto funebre per gli amori finiti, per i sentimenti congelati nel tempo.
La sua voce è carezza e gelo insieme: “If I could melt your heart…” un’invocazione che suona come una preghiera, come un sortilegio lanciato nel nulla. Tutto, in “Frozen”, parla di trasformazione: la donna che diventa elemento, il dolore che si fa arte, l’umanità che scompare per lasciare spazio al mito.
In quegli anni, mentre il pop correva verso il futuro con luci al neon e ritornelli radiofonici, Madonna tornava indietro, verso l’ancestrale, il mistico, il silenzioso. La sua oscurità non fa paura: incanta. È una notte interiore, una meditazione in nero.
“Frozen” segna uno dei momenti più enigmatici della carriera di Madonna: una confessione senza confessione, un incantesimo che trasforma il dolore in bellezza e la solitudine in rito. È un Halloween di ghiaccio e sabbia, dove non si urla, si fluttua.
💀 Il nuovo millennio: l’orrore glamour prende forma
Con l’arrivo degli anni Duemila, il buio del pop cambia volto. Non è più un’ombra poetica o un’eco gotica, ma diventa spettacolo, carne, scena. L’orrore non si nasconde: sfila, balla, si trucca di sangue e diamanti. Le popstar non evocano più fantasmi tra le brume romantiche li incarnano.
È l’epoca in cui il videoclip diventa un cortometraggio, e ogni performance una metamorfosi. Le streghe diventano icone di moda, i mostri si vestono di latex, gli incubi brillano sotto luci stroboscopiche. Il terrore si fa glamour, il desiderio si intreccia alla follia, e la paura assume le forme della bellezza più estrema.
In questo nuovo paesaggio, Britney Spears è una femme fatale tossica, Lady Gaga una divinità cybernetica, Rihanna la regina dell’oscurità urbana, Shakira una lupa che ulula sotto la luna artificiale.
L’Halloween del nuovo millennio non ha più castelli o candele, ha set cinematografici, costumi scolpiti e milioni di occhi che guardano.
È l’era dell’orrore pop: quella in cui le dive non hanno paura di sporcarsi, di deformarsi, di farsi mostri.
Perché, nel mondo del pop, essere “mostruosi” non è più una condanna: è un atto d’amore verso la propria verità.
Britney Spears, “Toxic” - 2003
Con Toxic, Britney Spears non canta semplicemente una storia d’amore velenosa: la diventa.
Il suo corpo è l’antidoto e il veleno, la sua voce una carezza che brucia. È l’inizio di un’epoca in cui il pop femminile abbandona definitivamente la purezza e abbraccia la metamorfosi, quella che trasforma l’innocenza in ossessione, la sensualità in potere.
Nel videoclip, Britney è un’entità cangiante: hostess assassina, ladra futuristica, dea della vendetta. Ogni fotogramma è un incubo lucido, sospeso tra fantascienza e perversione estetica. Le luci al neon tagliano la scena come bisturi, il latex riflette il bagliore tossico di un mondo artificiale dove la bellezza è arma e condanna.
Il suo sguardo non chiede perdono, comanda.
È la stessa innocente che il mondo aveva idolatrato, ma ora ha imparato a usare la propria immagine come strumento di ribellione.
La musica, costruita su archi elettronici e battiti infetti, vibra come un respiro trattenuto. Ogni nota scivola come veleno nella pelle dell’ascoltatore, dolce e letale allo stesso tempo.
Toxic è un rito di passaggio, una metamorfosi che segna la fine del pop ingenuo e l’inizio del pop consapevole, dove la paura e il desiderio si specchiano nello stesso volto.
Quando Britney sussurra “With a taste of your lips, I’m on a ride”, non sta solo parlando d’amore, sta annunciando un nuovo tipo di femminilità: predatrice, lucida, splendidamente pericolosa.
Lady Gaga, “Bad Romance” - 2009
Con Bad Romance, Lady Gaga consacra definitivamente il matrimonio tra pop e orrore. È l’alba di un’estetica nuova barocca, disturbante, irresistibile. L’amore diventa una prigione bianca, il desiderio un esperimento scientifico. Gaga non interpreta una canzone: mette in scena un rituale.
Nel video diretto da Francis Lawrence, nasce una creatura dall’incubatrice del glamour. Avvolta in plastica, curvata da tacchi impossibili, danza come un automa risvegliato in un laboratorio di follia. Il candore degli ambienti contrasta con la violenza dei movimenti, i corpi si piegano come ossa di porcellana, e la musica pulsante, ossessiva, sembra provenire da un altare dedicato alla metamorfosi.
Le “rah-rah-ah-ah-ah” iniziali sono un richiamo tribale, quasi un sortilegio. È come se Gaga evocasse una nuova specie di popstar: metà donna, metà spettro, una sacerdotessa dell’eccesso.
Il suo volto mascherato, le lenti che deformano lo sguardo, le pose sacrali tutto contribuisce a creare una figura che unisce il sacro e il profano, la bellezza e la repulsione.
Nel finale, il corpo dell’amante arde in un letto di fiamme mentre Gaga, nuda sotto un abito di diamanti, troneggia tra le ceneri come una vedova rinata dalle proprie ossessioni.
Non c’è più distinzione tra vittima e carnefice, tra amore e terrore: Bad Romance è la celebrazione di un amore così assoluto da diventare mostruoso.
In quell’istante, Lady Gaga ridefinisce il linguaggio visivo del pop. Non è più solo musica: è teatro, arte performativa, visione da incubo.
Halloween non è più una notte all’anno, con lei diventa uno stato dell’anima.
Shakira, “She Wolf” - 2010
Con She Wolf, Shakira scardina le porte dorate della femminilità addomesticata e lascia che la sua parte più selvaggia prenda voce. Non si traveste da creatura notturna, lo è. È la lupa che dormiva sotto la pelle della popstar, pronta a risorgere quando la luna le chiama il nome.
Il videoclip è una danza dentro una gabbia, ma quella prigione non è una condanna: è un ventre. Un luogo di trasformazione. Shakira si piega, si snoda, si allunga come un essere in mutazione, con il corpo che parla più della voce. Le luci pulsano in tonalità ambrate, come il respiro di una fiamma che divora la paura. Le sue movenze sono sensuali, ma anche inquietanti sembrano quelle di una creatura appena nata, che ancora non ha deciso se appartiene al mondo degli uomini o a quello degli spiriti.
Ogni battito della canzone è un cuore che accelera, un passo verso la libertà. Il synth vibra come un richiamo ancestrale, un battito tribale travestito da ritmo disco. È il suono della metamorfosi: quella che avviene quando la donna smette di nascondersi dietro l’immagine, dietro il controllo, e lascia che la sua natura più istintiva la divori.
“There’s a she wolf in your closet, open up and set her free” non è solo un verso pop è una preghiera. Un invito a risvegliarsi, a sporcarsi di luce e ombra, a riconoscere la potenza della parte animale che ci abita.
In questo brano, Shakira anticipa il linguaggio del pop più moderno: quello in cui la paura non è un mostro esterno, ma qualcosa che vive dentro di noi e che, una volta accettato, diventa forza, desiderio, libertà.
Con She Wolf, Halloween smette di essere una festa di maschere e diventa una confessione davanti allo specchio.
E quando Shakira ulula, lo fa per tutte le donne che hanno imparato ad amare la propria oscurità.
Rihanna, “Disturbia” - 2008
Con Disturbia, Rihanna ci trascina nel cuore di un incubo lucido, dove la mente diventa un labirinto e la paura prende forma sensuale. Non è il terrore gotico delle candele o dei fantasmi, ma quello moderno elettrico, mentale, costruito tra le pareti asettiche della fama e dell’insonnia. È l’orrore che vive nella mente di chi non può più distinguere se la follia sia un nemico o un’amante.
Il videoclip è un’opera visiva disturbante e ipnotica. Rihanna è prigioniera di sé stessa: incatenata, bendata, immersa in scenografie da manicomio futuristico. I suoi occhi accentuati da lenti lattiginose sembrano fissare qualcosa che noi non possiamo vedere, qualcosa che la divora da dentro. Le luci intermittenti, i movimenti scattosi, le pose contorte costruiscono un’estetica da incubo digitale: un mix tra metafisica del terrore e moda d’avanguardia.
La voce di Rihanna si muove su un beat ossessivo, pulsante come un battito cardiaco che non riesce a fermarsi. “It’s a thief in the night to come and grab you” la paura è una presenza viva, che cammina accanto, che ti accarezza mentre dormi. È una canzone che trasforma l’ansia in ritmo, l’angoscia in bellezza.
Disturbia è l’eco di una nuova forma di Halloween: non più la celebrazione del mostro esterno, ma l’esplorazione del buio interiore. Rihanna non interpreta né una vittima né un carnefice, è entrambe. È la personificazione di un malessere estetizzato, una regina delle tenebre che balla sopra le rovine della propria psiche.
Quando il videoclip si chiude, con lei che fissa la camera tra catene e flash, capiamo che il vero orrore non è fuori, è dentro. E "Disturbia" lo svela con la grazia feroce di una visione pop apocalittica.
Rihanna, “The Monster” (feat. Eminem) - 2013
È una conversazione con l’ombra.
In The Monster Eminem scava tra le sue paure e la fama come in una seduta dallo psicologo che è diventata improvvisamente un incubo, mentre Rihanna risponde con un ritornello che suona come una nenia ipnotica: “I’m friends with the monster under my bed”. La sua voce calma e gelida funge da contrappunto spettrale alle confessioni del rapper, trasformando il pezzo in un duetto tra chi urla e chi sussurra.
L’estetica del brano e del video che lo accompagna gioca su contrasto e rifrazione: bianco clinico che nasconde crepe, specchi che deformano il volto, corridoi che sembrano condurre sempre più in profondità dentro se stessi. Rihanna non è la spaventatrice: è la guida che conosce il mostro meglio di chiunque altro, la figura che canta la paura come fosse un mantra domestico.
Qui l’Halloween non è fatto di teschi o di sangue scenico, ma di demoni interiori resi popolari: il mostro è la celebrità, l’ansia, la voce che non smette di parlare quando le luci si spengono. "The Monster" trasforma il pop in una stanza chiusa, dove la paura è familiare e, paradossalmente, quasi confortante perché riconoscere i propri fantasmi è già un primo passo verso la liberazione.
Billie Eilish, “Bury a Friend” - 2019
Con "Bury a Friend", Billie Eilish porta il pop negli abissi dell’inconscio. Non è più il tempo dei mostri esterni: ora la paura parla sottovoce, sussurra dal letto mentre dormiamo. È il suono della generazione che ha smesso di gridare e ha imparato ad ascoltare il proprio buio.
Il brano è un sussurro tagliente, una ninna nanna spezzata da rumori metallici, respiri e silenzi inquieti. Billie canta come se fosse posseduta o forse come se fosse lei stessa il demone che ci osserva dal sottosuolo. “I wanna end me” non è solo una frase provocatoria, ma un grido sommesso che racconta il disagio contemporaneo, la fragilità trasformata in arte.
Il videoclip è un viaggio nel terrore psicologico più puro. Corridoi asettici, luci intermittenti, aghi che penetrano la pelle, corpi che si muovono in uno stato di trance. Billie avanza come una creatura insonne, sospesa tra sogno e realtà, tra anestesia e dolore. Tutto è lento, ovattato, ma spaventosamente vero.
Non c’è scenografia barocca né costume esagerato: l’orrore è minimale, emotivo, reale. È la paura di sé stessi, dell’invisibile che abita sotto la pelle.
Con "Bury a Friend", Billie Eilish trasforma l’Halloween del nuovo pop in un’esperienza intima. L’oscurità non è più uno spettacolo: è una confessione.
La sua voce, spenta e fragile, diventa il suono dell’ansia collettiva, di una generazione che trova bellezza nella vulnerabilità e verità nella mostruosità.
Billie non interpreta un ruolo: lo è. È la reincarnazione moderna della creatura di Frankenstein, che questa volta decide di raccontare la propria versione della storia.
Nel suo mondo, i mostri non fanno paura, chiedono solo di essere ascoltati.
👁️ Epilogo – Quando il buio canta con voce femminile
Dalle brume romantiche di Wuthering Heights al sussurro disturbante di Bury a Friend, la storia del pop femminile legato all’oscurità è un viaggio tra metamorfosi e rivelazioni. Le donne del pop non si sono limitate a giocare con l’estetica di Halloween: l’hanno trasformata in linguaggio, in confessione, in potere.
Ogni epoca ha dato loro un volto diverso del buio.
Kate Bush ha danzato con i fantasmi dell’amore, Madonna ha vestito la blasfemia di rosso, Britney ha avvelenato la sensualità, Lady Gaga l’ha bruciata nel fuoco della rinascita. Shakira ha liberato la lupa interiore, Rihanna ha conversato con i propri demoni e Billie Eilish ha trasformato il terrore in introspezione.
Sono state streghe, spettri, sirene e divinità. Ma soprattutto, sono state vere.
In loro, Halloween non è una festa di una notte, è un modo di esistere, di accettare che l’ombra fa parte della luce.
Il pop femminile ha insegnato che essere “mostruose” non significa essere sbagliate: significa avere il coraggio di mostrarsi intere, anche nelle parti che fanno paura.
E mentre le luci si abbassano e il suono si dissolve in un'eco lontano, resta la promessa di un nuovo capitolo.
La notte in cui i Re del pop prenderanno la scena.
Dove il terrore vestirà giacche di pelle, dove i mostri si muoveranno al ritmo del beat, e dove scopriremo che anche gli uomini del pop da Bowie a Michael Jackson, da The Weeknd a Harry Styles hanno danzato con le loro ombre.
🕯️ “Hit pop e Halloween – Parte II: I Re dell’Oscurità” arriverà presto.
E sarà il momento di entrare nel castello dei suoni maschili, dove anche il buio sa brillare.


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