"Quando il kitsch era una religione: inni italiani da cantare a squarciagola"
In un Paese che ha partorito capolavori melodici e cantautori profondi, esiste un universo parallelo che va oltre la musica: è un’esperienza sensoriale totale. Qui le rime non sempre fanno rima, le coreografie sembrano punizioni scolastiche, e i videoclip sono girati con un budget che basterebbe appena per una pizzetta e una bibita.
Ma attenzione: non siamo qui per giudicare… o forse sì, ma con amore. Perché diciamolo: anche il trash ha il suo fascino. È quell’amico imbarazzante che rovina le feste… ma senza il quale le feste non esisterebbero. È quel brano che ascolti “per ridere” e poi finisci per avere in loop mentale per giorni. È il tormentone che odi con tutte le tue forze, ma che canticchi a denti stretti mentre fai la fila alle Poste.
In questo viaggio vi porteremo tra gli abissi e le vette del gusto discutibile: dai look leopardati degli anni ’80 ai testi scritti con la stessa profondità emotiva di un messaggio su WhatsApp, passando per rapper travestiti da filosofi e hit estive così invadenti da sembrare zanzare sonore.
Sì, rispolvereremo le meteore dimenticate, le regine del playback, i re delle televendite musicali, e quel tipo di canzoni che ti fanno esclamare: “Ma davvero questa è uscita sul serio?!”.
E mentre la critica musicale si interroga sul senso dell’arte, noi ci poniamo domande più importanti:
Perché “Gioca Jouer” è ancora nei nostri cuori? Chi ha permesso a “Dragostea Din Tei” di prendere la cittadinanza italiana? E soprattutto: possiamo considerare “Il Pulcino Pio” come patrimonio dell’Unesco?
Preparate le orecchie (e una buona dose di autoironia): il trash italiano è una montagna russa emotiva. E noi, con orgoglio e un pizzico di vergogna, ci sediamo in prima fila.
"Ma Quale Idea" - Pino D'angiò - 1979
Ci sono brani che ti fanno ballare. Altri che ti fanno ridere. E poi c’è "Ma quale idea" di Pino D’Angiò, che riesce a fare entrambe le cose... con gli occhiali da sole indossati anche di notte.
Siamo nel 1980. L’Italia sta ancora cercando di capire cosa siano il funk e il rap, e nel frattempo arriva lui: un tipo con baffo deciso, giacca a scacchi e una convinzione incrollabile di poter rimorchiare qualunque cosa respiri. Ecco, Pino D’Angiò entra in scena con la stessa delicatezza di un cavallo a dondolo dentro un negozio di cristalli.
Il pezzo? Un parlato ipnotico, praticamente un monologo in discoteca, poggiato su una base scippata (ma con amore) da "Ain’t No Stoppin’ Us Now". Il risultato è un mix irresistibile tra groove afroamericano e tamarragine nostrana, un funky da marciapiede, ma in giacca elegante.
“Io senza di te non so stare… Ma neanche con te!”
– filosofia pura, livello aperitivo con spritz annacquato.
"Ma quale idea" è diventata una hit senza volerlo, una sorta di inno per chi crede che l’autostima sia tutto, anche quando è totalmente fuori luogo. Eppure... funziona. Ti entra in testa, ti fa sorridere e, alla fine, ti fa anche ballare come se fossi nel privè di un villaggio turistico del 1985.
Insomma, Pino D’Angiò ci ha regalato un capolavoro del trash che ha anticipato mode, cliché e la figura mitologica dell’italiano spaccone da pista da ballo. E per questo, lo ringraziamo con il cuore. Glitterato.
"C'è Da Spostare Una Macchina" - Francesco Salvi -1989
Quando un parcheggio selvaggio diventa hit da discoteca
C’è chi per diventare una star riempie stadi.
E poi c’è Francesco Salvi, che entra in una balera con la faccia da “io ce l’ho il pezzo forte” e trasforma una comunicazione da parcheggio abusivo in un tormentone nazionale.
Siamo nel 1989. La scena si apre su un locale da ballo tutto luci colorate, piste affollate e musica a volume moderato, da vera festa di paese. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente quando si spalanca la porta d’ingresso ed entra lui, imperturbabile, in giacca e cravatta:
“Disk jockey… c’è da spostare una macchina.”
“È una R4… bianca.”
In quel momento, accade la magia.
Il DJ non si scompone. Anzi, accende la base, parte il beat e il messaggio si trasforma in un vero e proprio coro ipnotico, recitato e ballato da un esercito di vigili danzanti, rigorosamente in divisa.
Sguardi fissi, passi coordinati, coreografie minimaliste e ripetitive: è un funk metropolitano da ufficio multe, ed è irresistibilmente surreale.
La scena è una parodia dell’ordinario:
– Un palco che sembra preso da una sagra.
– Gente che balla come se davvero non si potesse spostare più nulla.
– E un Salvi che mantiene il tono grave e impassibile come se stesse leggendo un bollettino della Protezione Civile.
E poi, il colpo di genio finale. Dopo l’elenco ripetuto del modello dell’auto e la targa (che ovviamente “non si sa”), arriva la domanda cult:
“È un diesel?”
Una chiusura perfetta, tanto assurda quanto geniale, che diventa il marchio di fabbrica del pezzo.
Il video dura circa 5 minuti ma ti resta nella memoria come un incubo comico o come una serata in cui non trovi parcheggio da nessuna parte. È la rappresentazione visiva di quanto l’Italia sappia ridere dei suoi tic, delle sue disgrazie quotidiane e della burocrazia trasformata in musical.
"Fiky Fiky" - Gianni Drudi - 1988
La Romagna col microfono caldo (e senza vergogna)
Nel 1988 Vasco cantava “Liberi liberi”, ma a Rimini e Cattolica qualcun altro stava liberando… ben altri impulsi.
Signore e signori, arriva lui: Gianni Drudi, camicia sbottonata, sguardo furbetto, ritmo da balera e un solo grande messaggio da comunicare al mondo:
“Fiky Fiky con te!”
Niente metafore, nessun filtro poetico, il trash più puro e orgoglioso mai partorito su vinile.
Un testo che oggi suonerebbe quasi rivoluzionario per quanto è diretto, ironico, eccessivo.
Il bello? Drudi canta tutto con leggerezza, allegria e totale nonchalance, come se parlasse del tempo o di un piatto di piadina.
“Fiky Fiky” è una canzone che non lascia spazio a dubbi: non è un brano, è un’idea fissa.
Il suo successo fu immediato, soprattutto nei villaggi turistici, nelle sagre romagnole e nelle feste in cui il DJ si arrende all’evidenza: la gente vuole ridere, ballare e un po’ arrossire.
Un trionfo anni ’80: ambientazioni balneari da cartolina, comparse che sembrano uscite da un cinepanettone in bassa definizione e Gianni, che col suo sorriso da zio simpatico, trasforma ogni gesto in ammiccamento.
Il brano è stato bandito da alcune radio per “contenuti troppo espliciti”... il che, ovviamente, lo ha reso ancora più cult.
E negli anni 2000 è stato riscoperto dal web, diventando un meme musicale intergenerazionale.
"Tre Parole" - Valeria Rossi - 2001
L’amore spiegato con tre parole. E nessuna via di fuga.
“Dammi tre parole…”
“Sole, cuore, amore.”
Fine.
Già sei fregato.
Nel 2001, Valeria Rossi lancia il colpo perfetto: una canzone semplice, appiccicosa come il catrame sotto il sole di agosto, e capace di restare nella testa anche dopo un solo ascolto distratto.
Ma non è solo un tormentone. “Tre Parole” è diventata un simbolo. Della leggerezza, dell’amore adolescenziale, della melodia facile, del trash fatto con tutto il cuore (e un pizzico di zucchero a velo).
Il testo sembra uscito da un diario segreto scritto su un banco col bianchetto: parole piccole, emozioni grandi, sogni semplici come un “ti amo” scritto con la penna glitter.
Nessuna pretesa poetica. Nessun concetto elevato. Solo un bisogno sincero, urlato al mondo con un sorriso:
parlami d’amore. E dammi un bacio ancora.
E poi, il mantra:
“Sole, cuore, amore.” Tre parole che avrebbero potuto essere uno slogan di una crema solare, una maglietta da bancarella, o un tatuaggio fatto a Riccione nel 2001 alle tre di notte.
Non è costruita per provocare, per spingere, per colpire.
È una carezza musicale, un jingle da diario scolastico, un amore d’estate che non ti fa male… ma ti perseguita per sempre.
E mentre le hit straniere parlano di passioni turbolente, relazioni tossiche o balli proibiti, Valeria arriva e dice:
“Sole, cuore, amore.”
E l’Italia risponde:
“OK, la cantiamo tutti.”
Nel 2001 Tre Parole è ovunque: in radio ogni 18 minuti, nei CD masterizzati col pennarello, nelle pubblicità di gelati, nei karaoke di fine estate, nei cuori (e negli auricolari) di milioni di adolescenti che forse non sapevano cosa fosse l’amore, ma sapevano che aveva tre parole.
La canzone diventa virale prima che “virale” fosse una parola da social, e Valeria Rossi per un’estate intera è la regina assoluta del pop italiano zuccheroso. A riascoltarla oggi, "Tre Parole" fa sorridere.
È figlia del suo tempo, e quel tempo era rosa, ingenuo, un po’ kitsch, ma anche pieno di voglia di sognare.
E in un certo senso, è proprio quella sua sincerità disarmante a farla entrare a pieno titolo nella Hall of Fame del trash italiano.
Perché il trash non è solo esagerazione, è anche sincerità fuori luogo, leggerezza involontaria, eccesso di entusiasmo per cose semplici. Valeria Rossi, con questa hit, ha centrato il bersaglio: non con tre parole a caso, ma con le tre parole perfette.
"Pop Porno" - Il Genio - 2008
La sensualità che non ti aspetti, sussurrata tra un synth e un doppiosenso
Nel 2008, quando pensavi che il massimo della provocazione musicale fosse un twerk o un reggaeton fuori stagione, arriva un duo pugliese chiamato Il Genio e ti disarma con poche parole.
Boom!
Così, senza preavviso, con la voce più impassibile della storia del pop italiano.
E tu lì, immobile, a chiederti: “Aspetta… ha detto davvero quello che penso abbia detto?”
Ebbene sì. Lo ha detto. E l’ha pure ripetuto. Molte volte.
"Pop Porno" è uno di quei brani che arrivano dal nulla, ti colpiscono in faccia con la delicatezza di una piuma… ma la piuma è intrisa di doppi sensi.
La voce di Alessandra Contini è morbida, svogliata, quasi annoiata – ma è proprio lì il trucco. Non ti urla addosso il desiderio: te lo sussurra, ti gira intorno, ti accarezza con una tastiera Casio anni ’80 e ti lascia in sospeso tra l’imbarazzo e il fascino.
Musicalmente è un gioiellino lo-fi: tutto è minimal, retrò, leggero come un Bontempi a pile, ma incredibilmente efficace. Le drum machine fanno “tup-tup” come un cuore timido, e i synth sembrano usciti da un sogno pop francese doppiato male.
E poi, quando pensi che non possa diventare più strano, parte il ritornello:
“Pop porno, pop porno, pop porno…”
Ripetuto così tante volte che alla fine ti arrendi. Lo canti. Lo accetti. Lo ami. Anche se non capisci esattamente perché.
Il bello è che questa follia synth-pop non è rimasta nel suo angolino alternativo. No, il brano è esploso: in radio, nei locali, persino nei supermercati (ti giuro). È entrato in classifica, è diventato virale quando il termine “virale” lo usavano solo per l’influenza stagionale.
Il Genio aveva trovato la formula perfetta: fare una canzone sexy senza essere volgari, far ridere senza fare cabaret, farsi prendere sul serio mentre ti cantano “porno” 37 volte con voce da commessa di concept store.
Ed è per questo che "Pop Porno" si è guadagnata un posto d’onore nella playlist trash italiana:
perché è così furba da sembrare ingenua, così raffinata da risultare indecente, così trash da diventare irresistibile.
E diciamolo: se un giorno ti beccano a canticchiarla da solo, non negare nulla. È già troppo tardi.
Commenti
Posta un commento